Coprostasi: tra diagnosi, apprensione e disturbi funzionali dell’intestino
- Francesco Caruso
- 13 lug
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 9 ago

Tra le parole che più frequentemente generano apprensione in chi legge un referto radiologico o ecografico addominale c’è senza dubbio “coprostasi”. Un termine tecnico, ma dal suono sgradevole, che spesso viene erroneamente associato a qualcosa di patologico, grave o ostruttivo. In realtà, la coprostasi — che indica semplicemente un accumulo di materiale fecale in uno o più tratti del colon — è una condizione funzionale frequente, reversibile, e spesso benigna, nella stragrande maggioranza dei casi.
Secondo le più recenti classificazioni dei disturbi funzionali gastrointestinali — i Disordini dell’Interazione Intestino-Cervello (DGBI), codificati nei criteri ROMA IV (Drossman DA et al., Gastroenterology 2016;150:1257–1261) — la coprostasi non è una diagnosi a sé, ma una possibile manifestazione secondaria a disfunzioni della motilità, della percezione viscerale o dell’evacuazione.
Tra le condizioni più frequentemente associate a coprostasi troviamo:
Stipsi funzionale cronica
Sindrome dell’intestino irritabile con predominanza di stipsi (IBS-C)
Disturbi della defecazione (dischezia, dissinergia puborettale, ipocontrazione addominale)
Anodinia e iporeattività del riflesso retto-anale
Sindrome da rallentato transito colico
La coprostasi può essere evidenziata casualmente durante una radiografia dell’addome, un’ecografia, una TAC o una colonscopia, spesso in pazienti che lamentano gonfiore, senso di peso, dolore addominale sordo o alvo irregolare. Ma la sua presenza non equivale necessariamente a malattia. Il colon è un organo che accumula, compatta e conserva feci per ore o giorni: ciò che conta è se quell’accumulo crea sintomi o disfunzioni.
Molti pazienti leggono la parola "coprostasi" su un referto e si allarmano. Ricevo frequentemente telefonate o consulti urgenti da persone che, pur in assenza di dolore acuto o febbre, credono di avere un “blocco intestinale”. Va chiarito che coprostasi non è sinónimo di occlusione, né implica automaticamente l’uso di clisteri, lassativi aggressivi o interventi invasivi. Spesso è la spia funzionale di un colon rallentato, di un’anomalia posturale, di una dieta non adeguata o di un ipercontrollo emotivo sulla defecazione.
Un caso frequente nella mia esperienza: una donna di 52 anni, professionista attiva, lamentava da anni alvo irregolare, pesantezza addominale e senso di svuotamento incompleto. L’ecografia parlava di “coprostasi diffusa a carico del sigma e del colon ascendente”. Nessuna alterazione organica agli esami, ma una storia di ansia, sedentarietà e alimentazione scorretta. Attraverso una riabilitazione dell’alvo (fibra solubile, introduzione graduale di attività fisica, tecniche di biofeedback e supporto psicologico), ha risolto il sintomo, pur continuando ad avere feci nel colon visibili all’eco. Perché? Perché è normale che il colon conservi materiale fecale: ciò che conta è la funzionalità, non la sterilità intestinale.
Un altro caso, più complesso: un giovane di 28 anni, sportivo, con diagnosi errata di “colite” da anni, referti che parlavano di “coprostasi importante al sigma”, dolori addominali ciclici. Dopo esclusione di cause organiche (celiachia, MII, parassitosi, SIBO), è emersa una dissinergia addomino-pelvica, associata a trattenimento volontario e ansia sociale. La terapia ha incluso tecniche di rieducazione del pavimento pelvico, ipnosi gut-directed e neuromodulazione viscerale con basse dosi di amitriptilina. A sei mesi, il paziente è asintomatico, non più ossessionato dalla “coprostasi” descritta nei vecchi referti.
Le linee guida dell’American Gastroenterological Association (AGA) sulla stipsi cronica (Paquette IM et al., Gastroenterology, 2020;158(5):1232–1243) e le raccomandazioni ESNM-Rome Foundation ribadiscono che:
Il trattamento della coprostasi non è uniforme: va personalizzato
L’uso di lassativi va modulato e non cronicizzato
Il primo passo è educare il paziente, spiegare cosa sia il colon e come funzioni
La comunicazione medica è parte della cura, soprattutto con referti ansiogeni
È per questo che, nei miei referti specialistici, evito espressioni come “coprostasi importante” se non accompagnate da una valutazione funzionale. Meglio usare diciture come “residui fecali compatibili con rallentato transito” o “condizione comune in assenza di segni di allarme”. La terminologia è cura, la cura è ascolto.
Quando il paziente comprende che il suo colon non è malato, ma ha bisogno di ritrovare il ritmo, la paura si scioglie. E con essa, spesso, anche il gonfiore, l’irregolarità, la dipendenza da lassativi. Perché la pancia, come la mente, ha bisogno di essere rassicurata prima ancora che svuotata.


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